Palma di Montechiaro (dalla fiction alla realtà)

Sulla piazza del Palazzo di Palma lo zoccolio del nero cavallo frisone fu improvviso sull’asfalto come il suo inverarsi proveniente dal cantone dietro la villa comunale. Un cavallone dall’occhio ombroso, imperioso, imponente, tenace, col pelo sugli zoccoli, la criniera e la coda al vento, dall’ombra indomabile, il fantino ricciuto e nero pure esso, come un cavaliere dei trionfi della morte medievali, un cavaliere in T-shirt da Crociata. Trascorsi non più di 4 secondi dalla comparsa del cavaddro nivuro, che li aveva annunciati, s’inverarono vitali e sgasanti i 10 centauri sicani con le rispettive consorti, maglie rosse con stampigliato il Dioniso e il ciuchino di Monte Saraceno, a cavallo delle rombanti vespe attese da Ravanusa. Grande Capo Sicano in testa. Cavallo e due ruote gommate in un passaggio di tempo simbolico e millenario in una manciata di secondi. Uscito di scena il cavallo frisone, apparizione esoterica, rimasero su piazza le gioiose vespe contemporanee. 10400871_10152430549704064_694207084254655638_nAppuntamento escursionistico urbano nel Paese del Gattopardo, nel Feudo dei Tomasi di Lampedusa, nella Donnafugata narrata nel romanzo, traslata, evocata, proiettata sugli schermi di mezzo mondo. Pensavi dunque alla prima proiezione della pellicola Luchino Viscontea che indusse in seguito alla lettura del libro. Pellicola che nella falsificazione ontologica del cinema non fu girata a Palma di M. ma a Palermo e a Ciminna, nel palermitano. Traslatio Finxionale. Traslatio ex Reale.10447538_10152430552549064_7252714626287727545_n

Pensavi a quella domenica d’autunno con Padre e Sorella, agli inizi degli anni ’80, al cinema di 2a o 3a visione, oggi Nuovo Sacher di Nanni Moretti. Sedie pieghevoli di legno, cassiere, esercente e proiezionista, in un’unica figura professionale, con un cane amputato di una zampa di dietro, cozzarono con la preziosità della pellicola, il cinemascope, la ricostruzione storica finxionale, la sontuosa efficacia del Capolavoro. Quasi come il kubrickiano Barry Lyndon visto in infanzia, il Capolavoro si foto-incise fotogramma per fotogramma nella memoria visiva adolescenziale, con la cromia calda della macchina da presa di Giuseppe Rotunno, incarnata nei volti di Lancaster/Principe di Salina, nella Cardinale/Angelica, nel Delon/Tancredi, che agivano negli interni dei ricomposti ambienti della Sicilia degli anni ’60 del secolo XIX. Iniziazione all’immaginario siciliano che mai più abbandonasti.
Film uscito un centinaio di anni dopo i fatti narrati s’impresse con la sua capacità evocativa, coinvolgente fino a far percepire sulla pelle la calura dell’estate, il frinire delle cicale, il cantare del papanzicu nei campi di grano, l’odore di sudore rancido del prete accaldato sotto l’abito talare, e il profumo frusciante delle vesti di Angelica. Sensuale come Visconti, il Gattopardo filmato pescava carnoso nel romanzo tutto novecentesco che aveva vinto lo Strega postmortem dell’autore nel 1958, come un carotaggio archeo-geologico nelle profondità ventrali della Sicilia in dissolvimento, con l’arrivo dei garibaldini, dell’Unità d’Italia, dei Savoia, nella Sicilia del “tutto cambi perché nulla cambi” che fece infuriare il comunista Vittorini. L’inesorabile vento della Storia che in Sicilia soffia da sempre tutto a modo suo.
In piccolo corteo gli escursionisti si trasferivano con la guida di Raffaele R. della proloco palmese al palazzo che fu trasformato dai Tomasi in secolare convento benedettino di clausura, ancora attivo, per metterci in perenne crucifissa preghiera una figlia devota. Venivano acquistati mandorlati dolci monacali consegnati con la ruota da una delle 7 sorelle devote, ancora claustrali. I Tomasi di Lampedusa da Capua, baciapile, filo-inquisotoriali, diedero chiese e conventi alla cittadina del loro Feudo acquistato dai de Caro, per concessione del Viceré che pensò bene di assegnare una terra coltivata a grano, ma inesorabilmente penetrata dalle incursioni dei pirati saraceni, nonostante la presenza delle torri camilliane e del castello a mare Chiaramontano, imponente e a picco sul mare. L’ispanico viceré si sbarazzò delle liminari terre akragantine e concesse il titolo nobiliare ai parvenue campani che ne fecero enclave per una famigliona di astronomi, santi, monache e sudditi, fino alla dissoluzione.

Dissolutio urbana, dissolutio antropologica, dissolutio paesaggistica. La condizione contemporanea di Palma di Montechiaro (Chiaramontana) è quella della DEVASTAZIONE. Inutile fare giri di parole. PdM la vedi in tutto il suo skyline sfasciato grigio/beige, prevalentemente abusivo, dalla SS 115. Più percepibile che altrove, una muraglia di foratini, calcestruzzi ferrati, cementi disarmati e depotenziati, scarti urbanistici residuali s’impone violenta all’occhio del viandante. 3000 immobili acquisiti dal comune perché dovrebbero essere demoliti ma che non lo saranno mai perché abitati. Immobili NON FINITI frutto della libera mano anarco-costruttiva para-mafiosa che insistono su macerie e tritume colato dai pendii. Una striscia di Gaza domestica tumorale, neoplastica e abusiva dove non sono esplose le bombe di una sanguinosa guerra di religione, per possesso di terra, ma quella di una inarginabile guerra incivile della cubatura, a partire profeticamente dalla fine degli anni ‘50. In mezzo a cotanto ammasso conflittuale spiccano le vette di palazzi e chiese tomasiano/lampedusiani. Architettura barocco sicula, scalinate e facciate di bella pietra calcarea come a Noto, Modica, Ragusa. Quando però entri nel palazzo ducale l’avvento della ristrutturazione impropria e neoplastica della seconda metà del sec. XX lo ravvedi chiaro anche lì: mattonellato di cotto da due soldi sulla scalinata, il mattonellato pseudo filologico nei saloni spogli che anziché essere di cotto è di mattonella da bagno. Il tutto verosimilmente costato ORO per le tasche dei cittadini. Edificio massacrato dai passaggi di proprietà e dalla Mano Libera Senza Controllo. Invece per dire di farci un Museo Archeologico in Memoriam di Tomasi di Lampedusa, con i reperti a cassettate di Monte Grande e della zona tutta, oggi nei depositi del Museo di Agrigento, la metafisica spoglia dell’abbandono e della ignavia lagnusia prevale. Per comprendere in profondità questa Fenomenologia verrebbe da invocare il Cavaliere a dorso del frisone, simbolica apparizione dureriana di quello con la Morte e il Diavolo, che Husserl teneva appesa nel suo studio per meditare filosoficamente. Noi lo vorremmo interrogare sulla via possibile di Salvezza e Progetto di Futuro per Palma di Montechiaro.

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Riprendevano i Sicani in corteo i propri centauri motorizzati e nella notte palmese del Monteoscuro percorrevano il tratto di strada che portava al Castello a mare Chiaromontano, suggestivamente illuminato, restaurato di recente, sottratto alle grinfie di una società privata che ne voleva fare pasto per banchetti nuziali. Salivano i Sicani con lo sciabordio del mare a picco, sotto le stelle sino alle porte del castello, illuminati nel sentiero dalle facies degli iphones/smartphones per ritrovarsi in una cappella tutta fiorita, tutta agghindata perché luogo di frequentazione assidua e devozione popolare per la Madonna attribuita con coraggio al Gaggini. Un ritrattone fotografico del papa argentino Bergoglio traguardava sorridente i fedeli. Sorridere e proferire parole contro gli abusi, contro la Terza Guerra Mondiale, contro la lagnusia e l’ignavia. Fedeli e Laici agite adesso, o resteranno solo macerie.

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